Non antropomorfizzare significa dare di più

di R. Marchesini

La sacrosanta battaglia contro l’umanizzazione degli animali ci dovrebbe spingere a riflettere che un animale va rispettato adeguandosi ai suoi bisogni etologici, vale a dire nell’osservanza delle sue caratteristiche fisiologiche e comportamentali.

Questo significa che si lotta contro l’antropomorfizzazione per dare di più all’animale e non di meno, perché ci si sforza di emendare la proiettività e di dare effettivamente ciò di cui il soggetto ha bisogno. L’antropomorfizzazione infatti non eleva il cane, il gatto o lo scimpanzé ma di fatto li sminuisce perché:

  1. non riconosce le caratteristiche e i bisogni presenti in una particolare specie ma assenti nell’essere umano;
  2. trasforma gli eterospecifici in quasi-umani e quindi implica l’umano come unità di misura e fuoco intorno cui orbitare.

Spesso sento porre in antitesi antropocentrismo e antropomorfismo: in realtà l’antropomorfismo è la forma più radicale di antropocentrismo. Nella vulgata l’atto o l’accusa di antropomorfizzare vengono spesso definite come un viziare il cane o il gatto; in realtà si tratta più prosaicamente di un maltrattare l’animale, che chiede e merita di essere trattato secondo le sue coordinate etologiche.

Andare contro le pretese antropomorfiche o addirittura antropoplastiche – tipiche di chi non interpreta semplicemente ma si sforza di trasformare in tutti i modo l’eterospecifico in una fantoccio quasi-umano – non significa perciò ritornare ai bei tempi andati quando il cane doveva stare rigorosamente in giardino o comunque secondo i dettati della strumentalizzazione.Lo dico perché esiste una nutrita schiera di persone che stigmatizzano l’umanizzazione non per aumentare il rispetto verso le altre specie ma per ritornare indietro…..Allora ci si sforzava di trasformare l’animale nella macchina cartesiana basata su automatismi, utilizzando le teorie psicoenergetiche e behavioriste e mettendo a punto prassi di gestione e di potatura comportamentale col solo scopo di trasformare gli eterospecifici in oggetti.

Ma in fondo anche la trasformazione di un soggetto in una cosa (reificazione), che sia strumento o prodotto poco importa, è una forma di antropocentrismo: in questo caso nel dare una patente di presenza solo-se e nella misura-in-cui un ente svolga una particolare funzione di utilità riferita all’essere umano.

Siamo antropocentrici tutte le volte che non riconosciamo a un eterospecifico una sua presenza libera da qualunque strumentalità e una sua ontica svincolata dai parametri proiettivi, di aspettativa, di funzione, di merito.

Antropomorfismo e reificazione sono perciò le due facce della stessa medaglia antropocentrica che nega all’animale una sua specifica ontologia e un suo ruolo nella dialettica relazionale con l’uomo. Si può non essere egocentrici? No. Si può allentare l’egocentrismo? Sì e in notevole misura. In fondo la crescita di un bambino nel suo rapporto con gli altri è sempre un percorso ego-decentrativo, che ovviamente si realizza in maniera più o meno consistente.

Allo stesso modo non si può non essere antropocentrici ma si può diminuire considerevolmente l’antropocentrismo di prospettiva acquisendo una sorta di empatia transpecifica.

In fondo l’etologia come studio delle caratteristiche comportamentali delle diverse specie è già in sé una palestra antropo-decentrativa, vale a dire un percorso che aiuta la persona a essere meno proiettivo nell’assegnazione di qualità, disposizioni, bisogni a un soggetto appartenente a un’altra specie.