PARLIAMO DI EUTANASIA

Parlare di eutanasia è difficile, perché è difficile qualsiasi pensiero e discorso sulla morte.
È difficile perché è doloroso e perché la morte rimane fondamentalmente, finchè non la incontriamo personalmente, un mistero.
D’altronde un viaggio trasversale nella letteratura attesta l’esistenza di ben pochi contributi relativi alla pratica eutanasica in veterinaria: e sono molteplici le radici all’origine di questo silenzio

Il proprietario ed il suo animale sono una coppia ed il legame che li unisce è molto profondo:
è a tutti gli effetti un legame di amore.
Che riguarda non solo l’uomo dal momento che molti studi oramai attestano la biunivocità e la reciprocità di questo scambio affettivo.
Gli animali sono in grado di attivare operazioni cognitive ed emotive molto complesse, soprattutto i mammiferi, che sono dotati di un cervello “emotivo” sostanzialmente simile al nostro.

L’esperienza di chi perde il proprio animale è nella società
occidentale quella di una generale rimozione e banalizzazione dei suoi vissuti.
Gli è negata la possibilità di esprimere ciò che prova perché la società non comprende e non accetta che si possa
provare un legame profondo con un animale.
Si vergogna, non sa bene come comportarsi.
E così all’esperienza della perdita si aggiunge anche la solitudine, la sensazione di esclusione.

Personalmente sono convinto che val la pena impegnarsi in una terapia, anche dolorosa per il pet, solo se esiste una concreta possibilità di guarigione o quantomeno il poter assicurare una buona qualità di vita. Lo stesso non posso dire quando la cura rappresenta il prolungamento di un’agonia che ha come unico esito possibile la morte.
Dietro l’accanimento terapeutico si cela una nostra difficoltà a elaborare la perdita di un essere che ci ha dato tanto. Una difficoltà comprensibilissima, ma che non tiene conto del costo per l’animale in termini di inutili sofferenze.
Spesso non è evidente senza alcun dubbio che l’animale ha finito la sua vita oppure che la sua sofferenza è intollerabile (oltretutto, è pochissimo che in Italia ci si preoccupa del dolore degli animali e della sua gestione).
Il proprietario si chiede: lo sopprimo perché lui non tollera piú la situazione o perché io non tollero piú la situazione?
E questo può succedere per motivi diversi, perché io soffro troppo ma anche perché non ho piú il tempo e/o l’energia per curarlo.

Nella scelta dell’eutanasia, i dati tecnici (come l’età, i parametri del sangue, la funzionalità renale ecc) aiutano ma non del tutto.
La scelta dell’eutanasia mette in gioco importanti valori e concezioni personali, come il significato della vita e della morte, e non soltanto degli animali.
Inoltre, può succedere di accorgersi di provare sentimenti poco accettabili, di cui ci si vergogna. Per esempio ci si rende conto di fare una gerarchia affettiva tra i propri animali, di avere delle preferenze, di sentire in modo diverso il peso della morte a seconda di quale animale colpisce.

Se la cura è troppo costosa – e quel “troppo” è diverso da persona a persona – si sceglie l’eutanasia.
Sembra un comportamento squallido, ma è reale e razionale.
Credo invece sia immorale non far fare l’eutanasia nascondendosi dietro la propria sensibilità. Ci sono persone che non fanno sopprimere il proprio animale perché non se la sentono di affrontare questa scelta e così lo lasciano soffrire e agonizzare.
Anche quando la scelta dell’eutanasia è certa, indubitabile dal punto di vista medico, comunque è una grande sofferenza.
C’è la perdita dell’animale, del suo affetto, della sua personalità, diversa da quella degli altri.
Subentrano sensi di colpa, più o meno giustificati, per non essere stati bravi padroni, per non averlo curato abbastanza, per averlo sgridato troppo, per non avergli concesso qualche capriccio e così via.

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